Tristan Morlet

La mia pratica pittorica è una via di mezzo, una sorta di ambivalenza tra il bisogno di rigore e la rabbia di dipingere.
Un'ambivalenza che rivela sia questioni pittoriche che domande più intime.
Lo sforzo formale è vissuto come un superamento di sé, un desiderio di dare una dimensione meditativa: tradurre il respiro, il respiro e l'espirazione, il flusso e il riflusso, in una parola l'energia della vita.
La sessione di pittura è davvero “un'uscita da se stessi”, quasi una trance! E per chi assiste un momento di contemplazione che vuole essere una parentesi dal resto del mondo.
Quando dipingo, il motivo principale non è mostrare ma fare. La mia pittura è un errare, un camminare che rifiuta ogni premeditazione, il cui tema è il presente della nascita dell'immagine e l'osservazione delle sue metamorfosi nel dialogo costante tra forma e informe, pensiero e movimento.
Il dipinto si dispiega seguendo il movimento del corpo, la tela diventa uno spazio mentale, un'arena dove si dispiegano le energie.
Colori e forme diventano velati, sovrapposti, coperti, diluiti o cancellati. Il gesto sbagliato, o il gesto goffo, o il gesto sbagliato chiede di continuare, trasformare, rettificare fino a trovare il giusto punto di equilibrio, le giuste tensioni.
Quindi i contrasti che cogliamo, il freddo e il caldo, il lato gelido e una certa sensualità sono legati a me, non in modo aneddotico, ma come emozioni umane, ambivalenze della mia personalità. E sono proprio queste tensioni, questa quasi lotta, contro le ambivalenze, contro la frammentazione, a rendere la mia ricerca una ricerca di unità. L'unità del dipinto è per me una questione essenziale.
Questa ricerca di unità è la ricerca della misura, di gesti misurati, semplicemente di una buona respirazione...Trovo fondamentale la soddisfazione di produrre qualcosa con le mie mani, di toccare la materia.
Confrontarsi con la materia significa imparare a stare nel mondo, ad essere attaccati all'universo intero e, soprattutto, a sentirsi vivi, nel profondo.